Intervista con l'ex presidente della Regione. «Stiamo entrando in un mondo già proiettato nel futuro con i bagagli del 1950 e questo non è più accettabile»
SASSARI - La storia di un popolo può essere il fondamento da cui partire per creare il futuro. Una presa di coscienza reale, nuda, qualunque sia il passato. Un legame necessario per essere consapevoli del presente e creare nuove prospettive. E' una visione precisa e determinata quella di Pietro Soddu, politico, 84 anni, oggi scrittore di "Sardeide: dalla sarditudine alla Sardegna. Una narrazione da riscrivere", presentato stasera a Pattada. Dalla politica alla società sarda l'ex presidente della Regione ha incontrato
Sassari News e risposto ad alcune domande sui suoi ultimi scritti e sulla situazione attuale dell'isola negli anni della crisi economica.
Come nasce il suo ultimo lavoro?
«Dall'idea di fare qualcosa di diverso dal solito per introdurre un dibattito su quello che la Sardegna sta attraversando. Cosa siamo e cosa dovremmo essere sia in termini culturali sia in termini di istituzioni politiche, insomma una serie di problemi che andavano introdotti in maniera differente. E' una partenza piuttosto complessa e allo stesso tempo invitante nel senso che si arriva al dialogo finale tra autonomista, federalista e sovranista dopo un percorso che serve a ciascuno per costruire liberamente un'idea di quello che siamo, dei nostri problemi, del carattere nazionale sardo, ammesso che esista, e quindi di una coscienza più matura della nostra identità. Dal punto di vista letterario potrebbe essere anche stravagante, non corrisponde a nessun modulo che io conosca. E' un insieme di cose, un po' poema, tragedia greca, canto estemporaneo sardo e dialogo lontanamente riferibile al modello platonico».
Una riflessione attenta sul passato e sulle prospettive future. Com'è il presente dei sardi?
«Credo che il problema dei sardi sia riconciliarsi con se stessi anche se non è facile perché non siamo pacificamente uniti e abbiamo sempre problemi tra di noi. Per fare questo credo si debba fare i conti con la storia. Per avere un'idea ponderata del nostro presente, di cosa siamo e dobbiamo essere, occorre guardare a quello che è stato il nostro passato e fare i conti con ciò che non abbiamo mai avuto come una letteratura nazionale o una storia di eroi. Ci mancano tante cose che stiamo cercando e che a volte ci siamo inventati. Abbiamo anche pagine non brillanti della nostra storia, molta sudditanza, molto servilismo e molti tradimenti. Tutto questo viene in gran parte rimosso e ci impedisce di capire la nostra condizione. Qualunque sia la soluzione che verrà scelta, il primo problema è quello di guardare a noi stessi con molta serietà, rigore, senza compiacimenti e senza farci sconti. Così troviamo un modo per riconciliarci e diventare quello che forse non siamo mai stati: un vero popolo, una vera nazione con una sua identità problematica, piena di chiaroscuri ma accettabile».
Il presente dell'isola è caratterizzato da una crisi senza precedenti. In che modo si sta agendo?
«Siamo in una fase stazionaria, non siamo capaci di continuare quello che è stato iniziato e di cambiare. E' una gestione un po' passiva delle cose, non c'è una nuova dimensione futura. Se non si fa lo sforzo di collocare i nostri problemi in uno scenario dinamico del futuro si finisce con il chiudersi nel presente e gestire solo i fatti causati dalla crisi. La sola gestione di questi non cambia la situazione, la rende più grave. Occorre dedicare attenzione ai problemi della società e contemporaneamente impegnare le persone che hanno intelligenza e cultura per creare le condizioni di sviluppo per i prossimi anni. In tutto questo andrebbe anche rimodellata la dimensione politica, l'organizzazione dei partiti e anche la scuola. Alcune tendenze della società moderna sono in atto e questo richiede l'impegno dei politici ma anche delle strutture culturali, universitarie, scolastiche e anche dei sindacati. Stiamo entrando in un mondo già proiettato nel futuro con i bagagli del 1950 e questo non è più accettabile».
Quale ruolo ha l'autonomia in questo contesto?
«In un mondo sempre più globalizzato sembra emergere l'esigenza di avere una propria soggettività, individualità e identità. Perché avvenga questo e non si venga travolti dal mare dell'uniformità globale, dobbiamo costruire la nostra posizione storica e la nostra esperienza».
E il sardismo?
«Credo che rispetto alla storia passata sia un concetto che vada ampiamente rivisitato tant'è vero che anche il partito sardo sta assumendo posizioni mai assunte: sta diventando più indipendentista che autonomista. Evidentemente i suoi anni pesano e qualcosa di nuovo lo devono fare anche loro».
Con la crisi della politica, movimenti e partiti indipendentisti hanno avuto un maggiore riscontro. Rappresentano una prospettiva futura?
«Hanno una radice nel passato e nelle teorie che hanno sempre sostenuto. In parte è una risposta alla crisi più generale. Abbiamo una crisi di rappresentanza molto forte che si vede nella sfiducia dei partiti, nel disonore nei confronti dei vecchi miti e delle vecchie ideologie. Oggi si capisce che il vecchio orizzonte, il senso che teneva in piedi la politica e la rappresentanza, il progresso e lo sviluppo, è in crisi. Non c'è più una possibilità di riconoscersi in una rappresentanza accettata come quella che io stesso ho vissuto. Oggi abbiamo molte macerie».
Cosa pensa dell'indipendentismo?
«Sembra una risposta a questa crisi della rappresentanza, delle ideologie, dei valori e dei progetti che avevano animato il Novecento. Il territorio diventa l'elemento determinante non solo in Sardegna e il patrimonio culturale diventa base nuova su cui fondare progetti di valorizzazione. Nell'Irs e nei suoi capi c'è anche una posizione che giustifica l'idea della sovranità indipendente con un motivo psicologico, come un'esigenza di colmare un vuoto che crea infelicità tanto che questa risposta politica è vista come un elemento che fa uscire i sardi da una coscienza infelice, li riconcilia nella loro storia e li rende meno cupi nel guardare il futuro. Due cose che si sommano e danno alla posizione indipendentista un valore generale che non fa i conti con la realtà politica generale. E' un'opposizione idealizzata che se deve diventare politica gestibile deve fare i conti con la realtà costituzionale italiana europea e con le esigenze della Sardegna nel mondo».
Può essere una soluzione per uscire dalla crisi?
«Non siamo maturi per una decisione di questo genere. La prossima legislatura dovrebbe essere di transizione e di approfondimento. Nel dibattito non c'è un'opposizione costruita razionalmente che faccia i conti con i limiti che abbiamo e che definisca i veri confini di un'identità, di un'autonomia e di un'indipendenza che ci renda capaci di avere contemporaneamente l'autogoverno e la partecipazione alle decisioni generali, quelle che influenzano la vita politica ed economica in Sardegna. Ci sono tanti fattori che comunque vada la politica influenzeranno la vita collettiva. Ricostruire la politica, la rappresentanza e dare un senso alle azioni collettive è un lavoro che richiede impegno dalle classi dirigenti e dalla cultura. Un lavoro che ancora non è stato fatto e definito nei suoi punti fondamentali. Non è la fretta che deve guidare le nostre decisioni ma l'approfondimento e la responsabilità. Va costruito un mondo che dia garanzie di vivere liberamente in una società oggi sempre più competitiva, aperta e che non si può chiudere in un recinto piccolo come la Sardegna».
Qual è la sua posizione politica?
«Se dovessi riassumere la mia posizione è fare di tutto affinché i sardi si riconoscano tra di loro in queste esigenze per ridiventare qualcosa che ha una voce, un'immagine esterna, compatta, unitaria, esterna, che faccia i conti con il passato ma che ricominci a parlare. I progetti che si vedono sono di scontro, manca la sostanza. Lo scontro ha un senso se accompagnato da un obbiettivo vero. Manca la rappresentanza, bisogna ricostruirne le ragioni e non è facile. La gestione del presente riassorbe in parte chi è dentro le istituzioni, che preso dalla morsa delle crisi di tutti i giorni vede di meno la prospettiva. Per questo anche gli intellettuali devono fare la loro parte, perché sono più liberi».
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